“…non possiamo che essere tolleranti con noi stessi
e con gli altri, rinunciando a essere paladini della Verità
e gioendo dell’essere artigiani del grado di sviluppo
mentale tollerabile per i nostri pazienti e per noi stessi”
Antonino Ferro
Solo apparentemente questa Cronaca parla di psicoterapia, o meglio, ne parla per parlare della relazione, della cura e della psiche (quando si parla di queste tre cose insieme si sta sempre parlando anche di psicoterapia). Fare distinzioni è importante e aiuta a conoscere ma sono convinto che occorra combattere contro le distinzioni troppo nette, quelle che offrono una certezza che può, a volte, paralizzare il pensiero in un sapere angusto e stereotipato.
Leggere, scrivere e sognare sono, apparentemente, attività distinte… Anche ora, leggendo state un po’ scrivendo e un po’ sognando.
Dopo aver letto l’ultima Cronaca un’amica mi ha chiesto cosa intendo esattamente quando affermo che concordo solo in parte con un “collega coraggioso” che asserisce che il trattamento analitico non è una cura ma uno spazio dove il paziente lavora sulla propria volontà di ignoranza.
Sostiene, questa amica, che se è vero che, come disse già Eschilo: “Solo il vero sapere ha potenza sul dolore”, allora lavorare sull’ignoranza dovrebbe essere Il Metodo per affrancarsi dal dolore.
Approfitto di questa domanda per continuare con il discorso della cronaca precedente, per parlare ancora un po’ di metodo e per ribadire quello che, secondo me, dovrebbe essere l’approccio da adottare quando si parla di psiche.
Concordare solo in parte è uno degli strumenti di questo modo di porsi: occorre sostenere l’incertezza e proporla, anche; tenere aperte le opzioni nel senso clinico di favorire tutto ciò che può essere ancora detto dopo aver finito una frase, dopo aver esposto un’idea o tratto una conclusione.
In terapia questo atteggiamento favorisce le libere associazioni: aiuta a portare avanti l’indagine su di sé non fermandosi alla prima idea che arriva ma accettando anche ciò che a quell’idea si collega. Spesso il terapeuta (e ancor di più l’analista) rimane con una sorta di punto interrogativo che accompagna il paziente incoraggiandolo ad andare avanti, a trovare altre immagini, altre passioni, emozioni, affetti, contenuti che arricchiscano ciò che ha appena detto.
Pochi vanno in terapia per sconfiggere l’ignoranza. Arrivano perché hanno dei sintomi, perché sono scontenti, depressi, nel panico. Hanno desideri! Tra cui, a volte, quello di conoscersi di più.
Sentite questo incipit da “Con le peggiori intenzioni” di Piperno: “Bepy sentì di non avere scampo dopo avere incassato la diagnosi di tumore alla vescica, quando tra il novero sterminato di interrogativi agghiaccianti scelse: potrò ancora scopare una donna o tutto finisce qui?” Cosa chiederebbe, se venisse in terapia, questo personaggio?
E cosa farebbe quest’altro, il protagonista di un romanzo di Updike a cui Foster Wallace fa un po’ le pulci in un saggio non proprio favorevole al libro? “Non è che Turnbull sia stupido: sa citare Pascal e Kirkegaard sull’angoscia esistenziale, discutere della morte di Schubert, distinguere tra Polygonum multiflorum destrogiro e levogiro. E’ che persiste nella convinzione bizzarra e adolescenziale che poter fare sesso con chi si vuole quando si vuole sia una cura contro la disperazione umana.”
Nei libri troviamo caratteri, stili di vita, attitudini verso il mondo. Leggiamo per trovare parti di noi stessi e per leggere porzioni della nostra anima. Eseguiamo, leggendo, dei transfert: ci identifichiamo con certi personaggi che ci piacciono, ne amiamo alcuni e ne odiamo altri. Pretendiamo, a volte, che ci soddisfino, vorremmo che facessero certe cose e che ne evitassero delle altre.
Nella vita… idem! E, siccome la psicoterapia non è qualcosa di distaccato dalla vita, quando una persona arriva nella stanza di seduta per un primo colloquio, succede qualcosa di simile.
Solo che il terapeuta deve astenersi: può provare una quantità di emozioni e di “risposte agli stimoli del paziente”, ma proprio come in un libro, non può determinare dove andrà il personaggio, non può deciderne il carattere, le inclinazioni, la storia.
Non può partire determinando che: “ecco, adesso lavoreremo sulla sua ignoranza, saprà sempre di più su di sé, diventerà consapevole e…”. Ci sono individui che arrivano portando tutt’altro. Ce ne sono di molto simili ai due uomini dei romanzi che ho appena citato. Si incontrano persone che chiedono un alleviamento del dolore, altre un potenziamento delle prestazioni o una conferma delle proprie “certezze”, c’è chi vuole confessarsi e chi cerca un complice, ecc.
Dire, sottendere o “far passare” che lavoreremo sulla sua ignoranza è, a mio parere, come cercare di scrivere un nuovo libro prima di aver letto ciò che “il personaggio” ha da dire.
E’ inoltre un modo per limitare le associazioni a un’indagine per scoprire di più, ad uno sforzo per essere più intelligenti, profondi, consapevoli. Ed è un tributo alla visione di Freud che vedeva l’analista come un archeologo, un esperto scrutatore di rovine dell’anima che, lentamente mette insieme i reperti che ricostruiranno la storia, le cause, ecc.
E’ un lavoro appassionante e non credo che possa esistere una terapia in cui almeno un po’ di questo compito non venga portato a termine. Ma è solo un pezzo del lavoro: è la lettura, il decifrare insieme alla persona ciò che dalla sua mente scaturisce, ciò che nel setting, in quello spazio condiviso che si crea fra i due nella stanza di seduta, viene a galla.
Ma in due non ci si limita a leggere. C’è, meno visibile ma continuamente presente, in ogni incontro terapeutico, la scrittura, la co-costruzione di contenuti: io in questo momento sono così e sento queste cose perché tu sei qui di fronte a me e, con il tuo sogno, la tua emozione, le tue risposte alle domande che pongo o che tu pensi che io stia ponendo, suggerisci alla mia psiche queste interpretazioni, queste ulteriori domande, questi incoraggiamenti ad andare oltre e più giù nell’inconscio… Insomma, come diceva Bion, si viene a creare un campo fra analista e paziente e questo campo genera contenuti diversi da quelli di qualsiasi altro e li genera nel qui e ora pescando dalle menti di entrambi.
E quando si scrive insieme non ci si limita ad un libro di storia, non ci si ferma alla ricostruzione. Ci si può avventurare nel territorio dei desideri e dei progetti, si possono intravedere tendenze e direzioni: vere e proprie fiction che rappresentano l’amore, l’odio, la ricerca, l’evitamento.
Dice lo psicoanalista Antonino Ferro: “Un’analisi che guarda al futuro è più nell’ottica non della detective story ma del film di spionaggio o di fantascienza, ovvero di quei generi in cui sappiamo che cosa potrebbe succedere se non si intervenisse. Cosa potrebbe accadere a un paziente psicosomatico? O a un paziente ossessivo? O a un paziente con allucinazioni? Siamo chiamati a impedire che accada il ‘prevedibile’ e che si avvii una nuova e imprevedibile narrazione.”
E il “guardare al futuro” potrà sorgere dal desiderio del paziente di conoscere di più ma anche dal suo bisogno di amare e di essere amato o dal suo anelito di vendetta, di rivalsa, ecc. Capiterà nel campo, sarà ciò che irrompe nella relazione e, come nella vita, ci si troverà a fare i conti con quella spinta.
Credo non sia un caso che A.Ferro metta nell’incipit del suo libro “Le viscere della mente” questa frase di Tarantino: “Se non riesco a far parlare i personaggi, allora rinuncio. Se sono io a far parlare fra loro i personaggi allora sono fandonie e fasullaggini. Diventa eccitante quando un personaggio dice qualcosa e io penso: Wow, ha detto proprio così? Non sapevo che avesse una moglie e la pensasse così!”.
Scrivere insieme (co-costruire) è sapere che non sappiamo esattamente dove stiamo andando, è accettare un certo grado di ignoranza e sospendere il desiderio di sapere per… scoprire più avanti o, forse non scoprire, ma imparare a sostare nell’incertezza e a sviluppare la capacità di costruire strada facendo. E’ anche, credo, il modo migliore per facilitare l’inconscio e per favorire la creatività; è il “concordo solo in parte” che incoraggia nuove esplorazioni e che rinforza l’altro fattore fondamentale di ogni cura, in seduta e nella vita, il sognare: il permettere all’altro e a se stessi di avere meno vincoli, di immaginare e allargare, di non doversi attenere per forza al ripetere, il poter, invece, inventare nuovi mondi, aprire ad altre possibilità.
“Ovvero, se sostituiamo alla psicoanalisi dei contenuti… una psicoanalisi degli ‘strumenti’ per sognare/pensare/sentire cosa accadrà? In altre parole, se guardiamo allo sviluppo della creatività del paziente questi cosa troverà/inventerà per sé?”. A.Ferro
Sognare, sognare insieme, sognare al posto di, sognare per chi non sa farlo o ha perso, momentaneamente o su certi argomenti, la capacità di farlo, è voler sapere e accettare di non sapere. Proprio come in un sogno: determiniamo una parte e accettiamo di essere stupiti da qualcos’altro, costruiamo un pezzo e lasciamo il resto a… al sogno dell’Altro.
Continua…