“Un autore scrive delle parole, che però sono inerti.
Per essere portate in vita hanno bisogno di un catalizzatore,
e il catalizzatore è l’immaginazione del lettore”
J.Gottschall
Quando alla fine del 1800 Nietzsche scriveva: “Che cosa può soltanto essere la conoscenza? – ‘Interpretazione’ non ‘ spiegazione’.”, intendeva porre le basi per una vera e propria rivoluzione nel campo del sapere: si intravedeva già, nella scienza, la possibilità di arrivare a conclusioni diverse a seconda dell’ottica da cui si guardava, diventavano sempre più evidenti, nelle dottrine umanistiche, la “relatività della verità” e l’impossibilità di affermare un’unica, inalterabile visione del mondo.
Nasceva in quegli anni la Psicoanalisi e, con essa, l’idea che le parole potessero, in qualche modo, guarire. Un’utopia in cui ancora in tanti non credono, una credenza che postula la possibilità di curare i sintomi del disagio psichico e a volte, addirittura, della malattia mentale, ascoltando e interpretando, ri-osservando e descrivendo in modo diverso la realtà che il paziente vive e le relazioni in cui è immerso.
C’è alla base di questo credo che, come tutte le dottrine ha i suoi seguaci, i suoi sacerdoti e i suoi dogmi, l’idea che il cervello produce e influenza la mente e che la mente influenza e può cambiare il cervello.
Se così fosse, se fosse vero che parlando, osservando e rileggendo i pensieri, le convinzioni e gli “stati d’animo”, si può modificare la macchina che determina, in modi oscuri e sotterranei, il “come ci sentiamo”… se fosse vero, basterebbe lavorare sulla mente: agire su quella sostanza impalpabile che scaturisce dall’attività del cervello.
Anche questa, naturalmente, è un’interpretazione. Nient’altro che un modo di considerare l’uomo, una descrizione possibile di come le cose funzionano. Crederci significa aprire la strada a un metodo: una serie di azioni, più o meno codificate, che, a partire da una teoria, puntano a produrre certi risultati.
Tutte storie! Non tanto nel senso di “tutte balle” ma nel senso che, se anche è solo un po’ vera la teoria secondo cui “se cambio le idee cambio il pensatore”, cambiare le storie che sente, che racconta e in cui crede… può cambiare il suo umore, il suo ambiente, la sua vita.
Sentite cosa consigliava Bion, cent’anni dopo l’affermazione di cui sopra di Nietzsche, suggerendo ai terapeuti un modo per cogliere nella propria mente e in quella dei pazienti quelli che lui definiva pensieri selvatici: “Se riuscite ad essere completamente aperti, c’è allora la possibilità che vi capiti di acchiappare uno di questi pensieri selvatici. E se permettete loro di alloggiare nella vostra mente, per quanto ridicoli, per quanto stupidi, per quanto fantastici siano, ci può essere la possibilità di dare loro un’occhiata. E’ questione di avere il coraggio di avere pensieri del genere (…) e di tenerseli per un periodo di tempo sufficientemente lungo da essere in grado di formulare che cosa sono.”
Sosteneva, insomma, che i pensieri compaiono nella mente, che a volte sono difficili da identificare, che bisogna aver la pazienza di osservare con calma e aspettare che si sviluppino, trattenersi dall’agire e, come da bambini quando ascoltavamo una storia, lasciarci stupire dall’entrata in scena del prossimo personaggio; accettare che non sappiamo già come va a finire, essere in quello stato di attesa che libera la mente dalla tirannia del fare e le riconsegna inventiva e apertura.
La metafora dei pensieri selvatici, che Bion paragonava alle sculture dei Prigioni di Michelangelo, è un consiglio per guardare dentro, un invito a scorgere, sotto ai vari “e adesso cosa devo fare?”, la struttura narrativa della mente, il suo Istinto di Narrare.
I pensieri selvatici sono l’accenno di una storia che, sempre, la mente sta narrando: continuiamo a raccontarci il mondo mentre lo abitiamo, facciamo centinaia di micro-sogni a occhi aperti che, mentre parliamo, lavoriamo, interagiamo, raccontano, interpretano e danno significato e emozione al nostro esserci.
Leggiamo il mondo e, come quando leggiamo un libro, aggiungiamo continuamente particolari. Come dice J.Gottschall: “La lettura è spesso considerata un atto passivo: ci sprofondiamo in poltrona e lasciamo che la musica dello scrittore suoni nel nostro cervello. Ma non è affatto così. Quando entriamo in contatto con una storia, la nostra mente macina a getto continuo.”
Narriamo dentro alla narrazione. Proiettiamo e “interpretiamo” nello stesso modo in cui può essere interpretato uno spartito musicale, aggiungiamo dettagli, informazioni, pathos.
“Talvolta gli scrittori paragonano la propria opera alla pittura. Ogni parola è un tratto di colore. […] Ma uno sguardo attento mostra come gli scrittori disegnino piuttosto che dipingere. La nostra mente fornisce la maggior parte di informazioni alla scena: la maggior parte dei colori, delle ombreggiature e della matericità.”
Lo stesso facciamo mentre il mondo si svolge davanti ai nostri occhi. E lo stesso facciamo, spesso inavvertitamente, mentre i pensieri coscienti, quelli addomesticati e che “pensiamo per bene” descrivono la solita versione delle cose.
Storie nelle storie, nelle storie!
E’ una lettura possibile, complessa e su molti livelli. Più un’interpretazione che una spiegazione.