Perché ci hai dato sguardi profondi
per scrutare presaghi il futuro
e mai abbandonarci, in un’illusione beata,
al nostro amore, alla felicità terrena?
Perché ci hai dato, sorte, i sentimenti
che ci fanno guardar l’un l’altro nel cuore
per indovinare negli astrusi viluppi
il vero legame che ci tiene?
Goethe
Nell’agosto 2003 David Foster Wallace partecipò, in veste di inviato della rivista Gourmet, al Festival dell’aragosta che si svolge ogni estate nel Maine. Scrisse un breve saggio, una via di mezzo fra la cronaca dell’enorme evento a cui partecipano centomila persone (con dati statistici, opinioni degli abitanti, considerazioni su cibo e costume ecc.) e le sue impressioni soggettive che lo portarono a chiedersi se davvero, assistendo alla preparazione di cento crostacei alla volta, alcuni dei quali hanno 40, 60 e in alcuni casi 80 anni di vita, che vengono cotti -vivi- nella “Pentola per aragoste più grande del mondo”, si può restare imperturbabili e perfettamente sereni.
Diceva Wallace: “A ogni modo, al Fam (festival annuale dell’aragosta), mentre si sta vicino alle vasche gorgoglianti accanto alla Pentola per aragoste più grande del mondo, a guardare le aragoste appena pescate ammassarsi l’una sull’altra, agitare impotenti le chele bloccate, stringersi insieme negli angoli in fondo o grattare freneticamente il vetro quando ti avvicini, è difficile non percepire che sono infelici, o spaventate, anche se è solo una versione rudimentale di queste emozioni… e, di nuovo, che c’entra poi se è solo rudimentale? Per quale motivo una forma di dolore primitiva, non verbalizzata, dovrebbe essere meno urgente o scabrosa per la persona che se ne rende complice pagando per il cibo in cui essa risulta?”.
Wallace non era un vegetariano né un membro del Peta e non era andato al festival per contestare o per difendere i diritti degli animali. Era, tuttavia una persona intellettualmente onesta e, come sa chi ha letto i suoi libri, uno di quegli scrittori con il gusto per la verità e per il pensiero penetrante.
Uno , insomma, che non si fermava alla prima considerazione e che, a volte “pensava fin troppo”. Andò avanti quindi, nel saggio, a porsi domande sull’indifferenza e sulle giustificazioni, anche “filosofiche” con cui uno spettatore si può anestetizzare davanti al dolore. Continua: “… è possibile che le generazioni future guarderanno alle nostre attuali agroindustrie e pratiche mangerecce in modo del tutto simile a come oggi noi vediamo gli spettacoli di Nerone o gli esperimenti di Mengele? La mia prima reazione è che un paragone del genere è ridicolo, estremo – eppure il motivo per cui mi sembra estremo è che credo che gli animali siano moralmente meno importanti degli esseri umani; e quando mi trovo a difendere tale convinzione, persino con me stesso, devo riconoscere che a) ho un ovvio interesse egoistico in tale convinzione, dato che mi piace mangiare certi tipi di animali e voglio continuare a farlo, e b) non sono riuscito a elaborare nessun tipo di sistema etico personale in cui tale convinzione sia davvero difendibile e non solo egoisticamente vantaggiosa.”.
Insomma… non ci sta dentro, Wallace! L’espressione “non ci sta dentro” è, per quanto ne so, molto lombarda ma rende bene un’idea complessa che è l’argomento di questa cronaca e, allo stesso tempo, una delle colonne portanti della mia professione: il bisogno di noi esseri umani (non di tutti forse e in misure diverse, sicuramente) di giustificare i nostri comportamenti, di trovare un senso al nostro agire, di… starci dentro: allineare mente, cuore, anima e pancia (e genitali, molto spesso), in modo che, nell’allineamento, venga fuori un qualche costrutto che allontani l’angoscia e preservi la sanità mentale.
Posso metterla giù molto complessa, questa cronaca, ma se c’è una cosa che sto cercando di imparare da DFW e dai suoi scritti è quella di non intellettualizzare troppo… sarà complessa, quindi, perché l’argomento non può e non deve essere semplice ma la dividerò in almeno due parti e tradurrò i termini che uso, nella convinzione che, sì, Bion e la Klein e Freud hanno detto cose molto importanti sull’argomento ma, i primi due in particolare, le hanno dette in modo che solo i sacerdoti della loro religione li capiscono veramente.(Ci sono dei veri adepti nel mio campo, dei teorici della messa in latino e della necessità di leggere Freud in tedesco e Bion e Melanie Klein in ostrogoto).
(Non citerò, quindi, pezzi originali limitandomi a mettere la bibliografia per i veri masochisti a fine cronaca).
Diceva Bion che ci sono tre tipi di legame con gli oggetti con cui, in una relazione, noi umani ci rapportiamo. Quando in psicoanalisi e in psicologia parliamo di “oggetti” intendiamo sia persone che “cose interne ed esterne”: è un oggetto, per me, bambino, la mamma esterna con cui mi rapporto ma lo è anche l’immagine interiorizzata della mamma o del papà, della moglie (quando cresco, quella, ma anche quando me la immagino, da piccolo, ecc.).
Gli Oggetti posso o amarli o odiarli o aver voglia di conoscerli, secondo Bion, e posso quindi instaurare con essi un legame L (che sta per love-amore), o un legame H (hate-odio), o un legame K (knowledge-conoscenza). Il legame è sempre un’esperienza emotiva per cui e attraverso cui due persone o due parti di una persona sono in relazione e posso, quindi, desiderare di amare e di essere amato da un altro così come posso aver voglia di dominarlo o di allontanarlo o di “mangiarlo” sia in senso fisico che metaforico: potrei voler così bene da voler quasi mangiare, come capita con i bambini, potrei voler stare così vicino da desiderare, metaforicamente, di esser inglobato in quella persona, come se potessi “riposare in lei” o potrei, á la Hannibal Lecter, mangiarla come gesto di potere/odio/appropriazione (un gesto non così infrequente in certe psicosi o in certe pratiche sessuali).
Questo per dire che spesso i tre tipi di legame vanno insieme: amore, odio e conoscenza sono intrecciati e inestricabili.
E, tuttavia, quando uno dei tre viene in primo piano, gli altri tendono ad andare sullo sfondo e, se mi interessa principalmente conoscere, le funzioni amore e odio si attenueranno pur non sparendo del tutto: diventerò magari un cultore della materia ma non necessariamente per portarmela a letto (ovviamente potrebbe succedere anche il contrario: potrei sembrare molto interessato a conoscere con lo scopo di portare a letto la materia, nel qual caso ci sarebbe L in primo piano/nascosto e K sarebbe solo un corollario interno ben esibito per far colpo sull’oggetto).
Il desiderio di conoscere è una vera e propria passione: ha spinto ogni bambino ad esplorare il mondo, a smontare i propri giocattoli per capirli e ad astrarre per scoprire le regole che ordinano l’universo e lo rendono comprensibile/ripetibile. E’ grazie al legame K che abbiamo appreso un linguaggio e solo grazie alla passione per la conoscenza abbiamo costruito, apparentemente senza sforzo, il bagaglio di nozioni necessarie all’interazione fra esseri umani. E tutto questo molto prima di quel processo ordinato che, tramite l’istruzione, ha avuto l’ambizione e a volte la pretesa di renderci edotti, competenti, educati e, con il passare del tempo… “saputi”.
Me lo vedo DFW che si aggira fra i padiglioni del festival dell’aragosta e chiede agli avventori e agli organizzatori com’è questa storia che “le aragoste tanto non sentono perché non hanno un sistema nervoso abbastanza sviluppato” e che si stupisce osservando, dietro all’organizzazione efficiente e all’ospitalità interessata e sotto la maschera di “quanto è buona e fresca questa roba”, lo sguardo vuoto di chi decide di ignorare il problema, il dolore.
Quello che osserva è ciò che Bion ha definito -K (meno K): il tentativo, sostenuto da uno sforzo inconscio, di non pensare/non voler conoscere e di eliminare l’angoscia relativa ad una situazione rimuovendo, negando, mentendo e, comunque, compiendo una serie di gesti che squalificano la conoscenza.
Quando predomina il legame -K i modi di “starci dentro” in una relazione con un oggetto sono o quello di negare ogni possibilità di conoscenza: “…non mi interessa, non sono qui per filosofeggiare ma per mangiare aragoste… non ho voglia di pensarci… smettiamola di menarcela…”, o, in alternativa, quello di mettersi in una posizione di onniscenza: “…le aragoste non sentono niente… Dio ha creato gli animali perché noi potessimo nutrircene (sic)… va bene così, perché mi va che sia così…”.
Sono metodi legittimi e sono capacità che la nostra mente possiede: si può semplicemente “decidere” di non volerne sapere niente, su un determinato argomento, o si può “decidere” che conviene amare o odiare senza pensare troppo.
Quello che capita di osservare, nel mio lavoro, è che spesso nei punti in cui le persone non hanno pensato si sono formati delle specie di calli : il risultato di una sorta di ostinazione a non cambiare, una specie di tenacia nel ripetere allo stesso modo, andare avanti così, quasi per inerzia. Attorno a questi calli si formano delle sacche di non-pensiero e, spesso, dei sintomi: panico, paure senza spiegazione, soluzioni che perpetuano il problema.
Immaginate un bambino che decida di smettere di essere curioso su un argomento e immaginate che l’argomento sia, ad esempio, il linguaggio; non farà sforzi per parlare, acquisirà probabilmente un vocabolario scarso e una grammatica appena sufficiente per comunicare o per elaborare pensieri elementari, pochi condizionali, pochi congiuntivi, poche ipotesi, ecc. Un nevrotico, ognuno di noi quando soffre, in uno dei settori della sua vita, di un qualche tipo di nevrosi è esattamente come quel bambino: incapace di spiegare una sofferenza, incapace di dare un senso e di elaborare un dolore senza nome, un‘ansia inspiegabile, un sintomo bizzarro!
Ecco perché in psicoterapia il legame più importante è il legame K: il terapeuta ascolta per capire e restituisce al paziente l’immagine di ciò che insieme hanno compreso; ogni interpretazione è il tentativo di aggiungere senso ed è anche un lavoro contro la rimozione e contro il desiderio di non sapere. Leggevo di un collega che, molto coraggiosamente, afferma che “il trattamento analitico non è una cura, è uno spazio emotivo e cognitivo dove l’analizzante (il paziente che porta avanti un’analisi su di sé con l’aiuto dell’analista) lavora sulla propria volontà di ignoranza.”.
Condivido questa visione solo in parte: credo sia impossibile prescindere dal bisogno di sollievo e di cura che un paziente porta con sé e penso che tra i compiti di un terapeuta ci sia anche quello di portare soccorso e di fornire strumenti intelligenti per alleviare il dolore e per mettere in atto strategie che consentano di “vivere meglio”. E, probabilmente questo è il motivo per cui sono uno psicoterapeuta e non un analista.
Ma, certo, il desiderio di conoscere è una molla fondamentale e risvegliarlo e renderlo più forte è uno dei compiti primari di ogni trattamento che si ponga come obiettivo quello di aumentare l’intelligenza di una persona su se stessa e sul proprio ambiente vitale.
Considerare l’aragosta diventa quindi una metafora, un modo per cominciare a lavorare sui calli che tutti abbiamo sviluppato e per promuovere il pensiero e la conoscenza.
Per dirla ancora con Wallace (e invitandovi a sostituire l’aragosta con un qualunque altro argomento su cui il pensiero esita): “Se, d’altro canto, non volete saperne di essere convinti o confusi e ritenete che ragionamenti come quelli del paragrafo precedente non siano che una futile contemplazione del proprio ombelico, cos’è che vi fa sentire veramente sereni, nel profondo, a liquidare l’intera faccenda? Ovvero, il vostro rifiuto di pensare a tutto questo è il prodotto di un pensiero definito, o è solo che preferite non pensarci? Pensate mai, anche solo tanto per, ai possibili motivi della vostra riluttanza a pensarci?”.
Continua…
Per chi volesse un assaggio di Bion: L.Grinberg et al. Introduzione al pensiero di Bion Raffaello Cortina Editore
Il saggio Considera l’aragosta di DFW si trova anche da solo in e-book.